Un viaggio nei ricordi di un giornalista che ha seguito dall’inizio l’incredibile avventura di Sony nel mondo dei videogiochi
Gli anni ’90 furono un periodo florido per il mondo dei videogiochi. Console come il Super Nintendo, il Nintendo 64, il Sega Mega Drive e il Sega Genesis regalarono grandi gioie agli appassionati, portando avanti una tradizione iniziata nella seconda metà degli anni ’80. Tuttavia la vera rivoluzione arrivò con l’approdo di Sony nel settore del gaming, che grazie alla prima PlayStation, commercializzata in Giappone nel 1994 e l’anno successivo negli Stati Uniti e in Europa, pose fine al duopolio e contribuì a rendere sempre più “pop” una realtà fatta di pixel e poligoni. Grazie anche a giochi di successo come Gran Turismo, Tomb Raider e Final Fantasy VII, il colosso nipponico riuscì a vendere 102 milioni di unità della console e diede il via a una nuova era, nella quale il marchio PlayStation divenne ben presto sinonimo di “videogiochi” per la stragrande maggioranza delle persone.
Sono passati 30 anni dal 3 dicembre 1994, il giorno in cui la prima PlayStation arrivò nei negozi giapponesi, e nel frattempo il mondo dei videogiochi ha subito dei cambiamenti radicali. C’è però una costante: Sony è tutt’ora una delle principali leader del settore e a ogni Natale ci sono sempre dei bambini che desiderano trovare una PlayStation sotto l’albero. Io ho vissuto quel mix di impazienza ed emozioni molto tempo fa, ma me lo ricordo ancora bene e ho provato delle sensazioni simili quando, qualche anno fa, sono riuscito a mettere le mani sulla PlayStation 5 che uso tutt’ora. Sono cresciuto assieme alle console Sony (anche se il mio cuore batte forte pure per Nintendo!) e oggi voglio unirmi alle celebrazioni del trentennale parlandovi nel modo meno imparziale possibile di dieci giochi che, in un modo o nell’altro, hanno segnato la mia crescita come videogiocatore. Non si tratta di una classifica, anche perché mi baserò più sulle emozioni che sui parametri oggettivi. Per essere il più equo possibile (ed evitare di monopolizzare l’articolo con le esperienze legate alla prima PlayStation, alle quali guardo per forza di cose con maggiore nostalgia) mi limiterò a due giochi per console da salotto, escludendo quindi le esperienze virtuali vissute su PSP e su PlayStation Vita.
I miei primi ricordi legati ai videogiochi risalgono a quando avevo quattro o cinque anni e mi arrampicavo su uno sgabello per giocare con il cabinato di Tekken 2 presente nell’hotel in cui alloggiavo assieme ai miei genitori durante una vacanza in montagna. Ero affascinato dai personaggi utilizzabili, dal wrestler King al canguro Roger, e nonostante le continue sconfitte facevo il possibile per andare avanti e portare a termine la modalità arcade. Non ci riuscii mai, ma ciò non intaccò in alcun modo l’amore che provavo nei confronti di quel videogioco. Pochi anni dopo, i miei genitori mi regalarono la prima PlayStation assieme a Tekken 3, dandomi l’opportunità di giocare senza limiti (o perlomeno senza dover inserire gettoni!) all’ottimo sequel del picchiaduro.
Non dimenticherò mai i personaggi passati a sbloccare un personaggio dopo l’altro (talvolta seguendo le guide vendute in edicola), a completare per l’ennesima volta la modalità arcade con Hwoarang o Yoshimitsu e ad affrontare alcune delle modalità più folli di sempre, come Tekken Force e Tekken Ball. Nel corso degli anni la mia passione per i picchiaduro è un po’ scemata, ma non mi tiro mai indietro quando qualcuno mi propone di rispolverare i gamepad e scoprire chi è il migliore tra King e Jin.
A dispetto di quel che si potrebbe pensare, la PlayStation non fu la mia prima console. Quell’onore spettò a un clone del NES (all’epoca erano presenti in qualsiasi supermercato) e al Super Nintendo, dunque credo che nessuno si meraviglierà di scoprire che le prime esperienze con il genere platform riguardarono un idraulico italoamericano con dei baffoni inconfondibili. I pomeriggi trascorsi a giocare ai Super Mario Bros. (dal primo al terzo, senza scordare il malefico The Lost Levels!) e a Super Mario World mi temprarono, rendendomi pronto ad affrontare qualsiasi gioco incentrato su salti precisi, power-up e nemici da sconfiggere in modi diversi in base alle loro caratteristiche. Quando presi in mano per la prima volta Crash Bandicoot 3 (il cui primo livello era contento in un disco assieme alle demo di altri giochi) mi ritrovai di fronte a dei contenuti al tempo stesso diversi e familiari. Molti elementi erano gli stessi (i burroni da sorpassare e gli oggetti da accumulare per ottenere una vita in più, per esempio), ma la tridimensionalità dell’esperienza portava con sé una ventata di aria fresca e induceva a cambiare prospettiva su alcune dinamiche tipiche del genere. All’epoca ignoravo l’esistenza dell’ancora più rivoluzionario Super Mario 64 (anche se non ci avrei messo molto a scoprirla), quindi il passaggio dal 2D al 3D mi sembrò ancora più grosso.
Meccaniche di gameplay a parte, Crash Bandicoot 3 divenne presto uno dei videogiochi preferiti del me stesso bambino anche grazie alla grafica cartoonesca, ai personaggi strampalati e alla simpatia del protagonista (ricordo che durante un carnevale mi tinsi i capelli di arancione e indossai un giubbotto di jeans per assomigliargli!). Negli anni successivi recuperai anche i primi due giochi della serie (arrivando a finire il secondo al 102%), che però non riuscirono a fare breccia nel mio cuore tanto quanto il terzo capitolo.
Devo fare una confessione: l’era PlayStation 2 la vissi perlopiù in modo indiretto, arrivando a recuperare la console solo quando sul mercato era già presente la sua erede. Durante gli anni delle medie fui un fiero possessore del Nintendo GameCube, ma grazie ai pomeriggi trascorsi nelle case degli amici ebbi comunque modo di giocare ad alcuni dei titoli più importanti che giravano sul monolite nero di Sony. Potrei citare pezzi da novanta come Grand Theft Auto (3, Vice City e San Andreas), Devil May Cry 3, Final Fantasy X, Kingdom Hearts 1 e 2, God of War e Ico, ma preferisco concentrarmi su WWE SmackDown! vs. Raw 2006, ossia l’unione proibita di due delle mie passioni più grandi: i videogiochi e il wrestling. Anche su GameCube c’erano dei titoli molto validi incentrati sul mondo della WWE (i due Day of Reckoning sono delle perle), ma non avevano la mia modalità preferita, ossia quella che permetteva di vestire i panni del general manager e decidere match, rivalità, scambi con il roster rivale e altro ancora.
Ho perso il conto delle ore passate a fare il possibile per superare gli ascolti di Raw (sceglievo sempre SmackDown!) e a distanza di anni non ho ancora trovato un gioco di wrestling tradizionale (escludendo quindi i gestionali pure come Journey of Wrestling) capace di regalarmi le stesse emozioni.
Quando i forum andavano ancora di moda, mi imbattei per puro caso in un topic dedicato al gioco di ruolo giapponese Persona 3 e leggendo le esperienze degli altri giocatori provai subito il desiderio irrazionale (almeno in apparenza) di recuperare una PlayStation 2 usata per provarlo con mano. Per fortuna riuscii a farlo senza spendere troppo e quando avviai per la prima volta il disco ebbi la conferma che il mio sesto senso ci aveva visto giusto: quel videogioco era davvero fatto su misura per me. La miscela di personaggi in stile anime, elementi da dating sim e riferimenti alla psicologia junghiana mi conquistò fin da subito, rendendomi pronto ad affrontare le circa ottanta ore richieste per portare a termine l’avventura.
Con il passare delle ore il mio amore per la trama e il sistema di combattimento (basato sull’utilizzo di “avatar” dei personaggi chiamati Persona, concettualmente simili agli stand di Jojo) non fece altro che crescere, portandomi a giocare a Persona 4 pochi giorni dopo aver finito il terzo capitolo della serie (privo di collegamenti diretti con i suoi predecessori). Nel corso degli anni ho giocato anche a Persona 5 e ho recuperato vari altri jrpg creati da Atlus, inclusi Shin Megami Tensei III, Persona 2 e Soul Hackers.
Quando acquistai la PlyaStation 3 per rimpiazzare l’Xbox 360 (caduta vittima dei led rossi della morte), il primo gioco che acquistai fu Mass Effect 2. Pur avendolo già giocato da cima a fondo sulla console Microsoft, non riuscii a resistere all’idea di affrontare di nuovo l’avventura del comandante Shepard con il DualShock 3 tra le mani, anche per ingannare il tempo in attesa dell’uscita dell’attesissimo terzo capitolo (che purtroppo non si rivelò del tutto all’altezza delle enormi aspettative).
Mi divertii tantissimo a reclutare di nuovo i compagni di squadra assieme ai quali affrontare la missione suicida e approfittai dei DLC inclusi nella versione PS3 (che non avevo acquistato su Xbox 360) per imparare a conoscere Zaeed e Kasumi e incontrare di nuovo Liara.
Il primo gioco targato Quantic Dream sul quale si mettono le mani non si scorda mai. Nel mio caso fu Heavy Rain, vero e proprio thriller interattivo pensato per far vivere al giocatore un’esperienza unica nel suo genere tramite gli occhi di vari personaggi.
A distanza di anni ricordo ancora l’adrenalina provata durante alcune delle sequenze più tese, spesso mischiata al timore di sbagliare un quick time event e causare dei danni irreparabili. Anche le giornate passate a riflettere sugli indizi raccolti e a fare speculazioni sulla possibile identità del colpevole sono rimaste ben impresse nella mia memoria.
Nier:Automata è un gioco che ci ha messo un po’ a fare breccia nel mio cuore, ma da quando ci è riuscito non se n’è più andato. Pur avendo adorato la prima parte dell’avventura, ho avuto vari problemi con la seconda (legati soprattutto a dei cambiamenti nel gameplay) che mi hanno portato ad allontanarmi dal titolo per un paio di anni.
Quando l’ho ripreso, nel pieno del primo lockdown, sono riuscito a superare quella che tutt’ora ritengo la porzione meno divertente del gioco e raggiungere il terzo anno, meraviglioso sotto ogni punto di vista. L’esperienza mi ha coinvolto così tanto da spingermi a sbloccare ogni trofeo pur di non doverle dire addio troppo in fretta.
Elden Ring è riuscito a far crollare due convinzioni alle quali per qualche anno mi sono aggrappato con forza: “non amerò mai un altro open world quanto The Legend of Zelda: Breath of the Wild” e “non sono un grande fan dei Souls-like”. Il gioco, acquistato a prezzo pieno dopo alcune settimane di attente riflessioni, mi è piaciuto molto più di quanto mi sarei aspettato, grazie soprattutto alla libertà offerta per quanto riguarda l’esplorazione e lo sviluppo del personaggio.
La personalizzazione dell’esperienza ha rappresentato un passo avanti significativo rispetto a Bloodborne (che avevo comunque apprezzato parecchio), anche se so che con tutti i fan del genere l’hanno vissuta altrettanto bene. Le difficoltà non sono comunque mancate, soprattutto per quanto riguarda alcuni boss e delle sezioni di platforming diaboliche, ma il desiderio di andare avanti ha sempre avuto la meglio su ogni fonte di frustrazione.
Elden Ring è riuscito nell’ardua impresa di trasformarmi in un fan dei Souls-like (impresa che a Bloodborne era riuscita solo in parte) e pertanto quando ho acquistato la PlayStation 5 non ho avuto dubbi sul primo gioco sul quale mettere le mani: il remake di Demon’s Souls! Oltre alla grafica impressionante, il gioco mi è rimasto impresso per il level design certosino di alcuni livelli e per gli sconti al cardiopalma con alcuni boss (anche se la maggior parte sono relativamente facili rispetto a quelli presenti in Elden Ring e Bloodborne).
Essendo il remake di un gioco del 2009, alcune meccaniche risultano datate, ma nel complesso mi sono divertito parecchio e ho pure trovato la voglia di sbloccare ogni trofeo (impresa che mi ha costretto a rifare l’avventura dall’inizio alla fine più volte).
Mi sembra giusto concludere questo lungo viaggio nei ricordi parlando dell’ultimo gioco che ho portato a termine su PlayStation 5. Metaphor: ReFantazio è un gioco di ruolo giapponese che riprende alcune meccaniche presenti nella serie Persona, ma si differenzia per l’ambientazione medievale e l’enfasi posta sui viaggi da un punto all’altro della mappa. Anche il sistema di combattimento non è del tutto uguale e sotto certi punti di vista può essere visto come un punto di incontro tra il “one more system” di Persona e il “press system” tipico degli Shin Megami Tensei.
Tecnicismi a parte, Metaphor brilla soprattutto per la sua trama, incentrata su un torneo per decretare il nuovo re e sulla centralità data al tema della fantasia, che da sempre aiuta l’uomo ad affrontare le asperità della vita e a guardare al futuro con rinnovato ottimismo. È proprio quel che fanno i videogiochi da ben più di trent’anni.
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